Lo ammetto, sono uno di quei librai che non ama Fabio Volo, uno di quelli che fa sorrisi tirati quando qualcuno gli chiede i suoi romanzi, che sbuffa quando li vede fra le novità Mondadori, che esclama: “ancora?!” fra l'irritato e il disperato. Per mille ragioni. Forse per le stesse per cui non amo Faletti. Ho provato a leggere i loro libri ma non riesco ad appassionarmi. C'è di più, ovviamente, c'è un'insofferenza che viene dal fatto che queste persone hanno fatto mille cose nella vita: radio, televisione: drive in(Faletti), le iene (Volo), cinema. E poi ancora musica. Sono cresciuto radicato nell'idea che la letteratura sia qualcosa di complicato, di aulico, di immenso. Ma non è così, ovviamente. La scrittura è esercizio, prima di tutto. Eppure, in molti di quelli che fanno il mio mestiere, l'antipatia per Volo persiste. Non parlo di invidia perché non è così, non nel mio caso almeno. È insofferenza. Chiedo venia, non so trovare un altro termine.
Eppure Volo è uno di quei personaggi che permette alle librerie di continuare a sopravvivere perché, diciamocelo, alla fine il nostro mestiere è vendere libri. Certo, mi farebbe piacere vendere 200 copie di: Un'eredità di avorio e ambra piuttosto che di Le prime luci del mattino ma, alla fine, per noi librai, è la vendita che conta. È orribile dire questa cosa, non sapete il male che mi fa. Ma è così, bisogna, a un certo punto della propria vita, prendere atto della situazione. La libreria non è quel luogo magico che si cela nell'immaginario collettivo, non c'è nulla di “romantico” nel mio mestiere. Siamo dei venditori, il nostro compito è far acquistare libri alle persone.
Nasce, lo so, a un certo punto un quesito etico.
Che genere di letteratura dovrei vendere? Se fossi un libraio indipendente forse potrei fare scelte diverse ma io sono un libraio di catena e vendo la merce che mi danno da vendere, consapevole che la qualità, Volo o non Volo, si è abbassata, che per cercare l'autore o l'autrice di talento e con carattere occorre avere pazienza e mettere in conto di leggere molti libri brutti. E non c'è nessuno snobismo nelle mie parole, non c'è nessuna formula del “libraio inacidito”. Certo storco il naso quando arriva Vespa in libreria ma Vespa significa introiti e certo mi taglierei un dito piuttosto che comprare un libro di Forattini o di qualsiasi altro personaggio che deve, per forza, far uscire un libro all'anno.
È chiaro, lo è nella mia mente almeno, che se qualcuno mi chiede un consiglio io consiglio uno dei libri che ho amato. Ma se un cliente vuole Volo io gli do Volo, non potrei fare altro, è il mio lavoro.
Detto questo posso anche dirvi che ho infranto una delle mie regole: mai parlare di qualcuno di cui parlano tutti. Lo faccio dopo aver letto l'intervista a Fabio Volo apparsa su Repubblica (lunedì 12 dicembre), la mia non è una critica al suo ultimo romanzo e neppure al personaggio che questa persona ha creato. Lui è una specie di Re Mida, criticato da più parti, escluso dai salotti bene è comunque uno scrittore di successo amato dalla gente, idolatrato dal pubblico. Non ne capisco i motivi, forse un giorno studieranno il fenomeno Volo da un punto di vista antropologico o sociologico. I fatti sono che Volo alla gente piace.
Ma c'è una parte dell'intervista che mi ha terribilmente infastidito o, forse, solo lasciato molto perplesso. Prima però devo fare un'ulteriore considerazione (post lunghissimo oggi). Volo ha ragione. Ha ragione quando dice che c'è una parte del mondo “intellettuale” che ama sentirsi superiore agli altri, ha ragione nel dire che se sei figlio di panettiere o operaio difficilmente riuscirai a conquistarti la stima di chi pensa che il proprio rango sia dovuto a discendenza divina. È verissimo che certi ambienti della letteratura sono di uno snobismo vergognoso, che c'è sempre qualcuno disposto a farti pesare la propria “superiorità” intellettuale. Lo dico consapevole di aver provato lo stesso senso di inadeguatezza che ha provato Volo. Sono figlio di operaio e per 14 anni, per mantenermi, ho fatto il cuoco. Ho cercato tutta la vita un “riscatto sociale” e quando mi sono illuso di averlo raggiunto mi sono reso conto di quanto fossi stato sciocco nel pensare di averne bisogno. Una volta, all'università, in un esame che non era andato particolarmente bene, un professore, chiedendomi di tornare alla sessione successiva, mi disse: “Sempre che lei non ritrovi la ragione e torni a fare il cuoco”. O il mio professore era un indovino in grado di leggere nel futuro e prevedere la crisi del mercato del lavoro oppure era un emerito stronzo che aveva bisogno di far valere la sua superiorità intellettuale. All'esame successivo presi trenta lo guardai e gli dissi: “Bene, ora posso anche tornare a fare il cuoco”.
L'ambiente letterario e artistico non è tutto rose e fiori, come in ogni campo ci sono persone capaci, oneste e intellettualmente mature e ci sono squali pronti a divorare chiunque vedano come un nemico, uomini e donne che hanno perso il senso del reale e credono di essere artisti con la A maiuscola. Lo pensano anche quando il loro lavoro non è nulla di più che mediocre.
Quindi Volo ha ragione ma nella sua intervista dimostra un'incredibile immaturità.
La verità è che siamo abituati a pensare alla società come una piramide. Alla base ci sono quelli che vengono universalmente considerati come poveracci, i soldi sono il valore più grande, la ricchezza l'unico obiettivo. Se fai un lavoro considerato “umile” allora sei un perdente, forse, addirittura, sei stupido. Oppure sei una persona che non ha voglia di lavorare, che non crede nelle proprie potenzialità, uno sfigato.
Se sei figlio di operaio devi desiderare di laurearti, magari, o di fare i soldi per riscattare te stesso e la tua famiglia. Ma cosa c'è da riscattare in un lavoro onesto? Perché dovrei sentirmi in obbligo di riscattare la mia posizione se mio padre ha lavorato quarant'anni facendo turni di notte e mia madre ha sempre lottato per non farci perdere la dignità? Cosa dovrei riscattare se mio padre, che non ha avuto l'opportunità di studiare, si è dimostrato, per tutta la vita, un signore decisamente più intelligente di quel professore universitario con i suoi titoli e la sua cattedra?
Mi riferisco in particolare a un passaggio dell'intervista di Volo, dopo aver spiegato al giornalista che se n'era andato di casa a diciannove anni il giornalista gli chiede:
“Cosa l'ha spinta a quella scelta?”
E Volo risponde:
Il bisogno di rivalsa sociale e l'umiliazione che la mia famiglia e i miei amici hanno subito. “Accorgersi della spocchia di certe persone che utilizzavano la cultura per tenerti a distanza, per farti capire che loro erano meglio di te, mi ha fatto montare la rabbia. E me ne sono andato. Per disperazione, per impotenza, perché non ne potevo più.... A quel punto tornare da perdente avrebbe significato dare soddisfazione a quelle persone che pensavano sarei rimasto sempre un panettiere”.
Credo che la reazione di Volo sia comprensibile e terribilmente umana. Eppure non la accetto. Non accetto il suo ragionamento perché penso che, per primo, fosse lui a non accettare la sua condizione. Come a dire: merito di più che fare il panettiere. E non c'è niente di male a voler fare altro nella vita. Lo ripeto, ero cuoco e ora sono libraio. Ma due delle persone che amo di più hanno fatto la scuola alberghiera con me, una fa tutt'ora la cuoca. È la persona che mi ha insegnato l'amore per la letteratura, per il cinema. È una persona che ha passato metà della sua vita a porsi delle domande, a lottare contro i suoi pregiudizi, ad amare la cultura. E c'è di più. È una vera artista, cucina in modo meraviglioso, credo che non cucinerò mai come lei. Ho un altro amico, anche lui cuoco. È una persona che non ha studiato ma quando cucina, ragazzi, be' il mondo prende odori e sapori diversi. Non ci sono persone migliori di altre. Ci sono persone più capaci in determinati ambiti della vita, persone portate per lo studio e altre per i lavori manuali. Diventare libraio non ha “migliorato” la mia condizione sociale, non ha fatto di me un eletto. Laurearmi non ha innalzato il mio status, non sono più intelligente grazie a un foglio di carta. Forse conosco più cose grazie allo studio ma dove è scritto che per documentarsi occorra una laurea?
Insomma non so come dirlo ma trovo infantile l'atteggiamento di Volo. Mi sembra di vedere un bambino che deve per forza dimostrare di essere più bravo.
Infine, poi giuro che chiudo questa lunga analisi sulle parole di Volo, non accetto quel suo ragionamento finale:
A quel punto tornare da perdente avrebbe significato dare soddisfazione a quelle persone che pensavano sarei rimasto sempre un panettiere.
Tornare da perdente? Come si torna da perdente? Sì è perdenti se non si raggiunge il successo? Si è perdenti se non si fanno i soldi? Se non si raggiunge il sogno? Se si rimane solo figli di un panettiere?
Marino Buzzi