Mi fermo qui, due giorni prima di
Natale, e lo faccio dedicando a tutte/i voi un mio racconto che
esprime bene il mio stato d'animo. Spero che i consigli per gli
acquisti siano stati utili, avrei voluto consigliare tanti altri
libri ma non ne ho avuto il tempo purtroppo. Vorrei però segnalarvi, prima
di chiudere, il libro PUPA di Loredana Lipperini,
arrivato in libreria in questi giorni, edito da Rrose Sélavy (12
euro). Storia e illustrazioni sono davvero belle ed è un regalo
intelligente che aiuta contro gli stereotipi di genere.
Non amo il Natale, diciamo che lo
subisco in silenzio, ma vi faccio comunque i miei migliori auguri.
Spero che saranno giorni lievi.
Marino Buzzi
Un uomo banale
Sognavo di diventare il nuovo Henry
Miller, di raggiungere i livelli di Charles Bukowsky e di
Ferlinghetti, mostravo la mia aria sperduta e sognante in giro per i
corridoi del liceo cercando di sembrare abbastanza intelligente da
far colpo su qualche compagno pronto a innamorarsi della mia poesia.
Spargevo fogli battuti a macchina in giro per la scuola, sui treni e
sugli autobus, li facevo trovare negli armadietti dei professori
tanto che alcuni, esasperati dal mio continuo tentativo di mettermi
in luce, mi gettavano pezzetti di pane addolcito nel latte per farmi
stare buono. Qualche “Bravo” un “Bel lavoro” e mi sentivo il
giovane scrittore più in gamba della scuola. Avrei finito gli studi,
mi sarei laureato a pieni voti, avrei scritto un capolavoro che
avrebbe cambiato la storia della letteratura, avrei viaggiato, tenuto
conferenze, sarei diventato ricco e famoso.
Cominciai a scrivere il primo romanzo
in quinta superiore, presi la maturità classica e mi iscrissi a
lettere. La speranza di mia madre era quella di vedermi laureato, non
importava in cosa ma voleva una laurea. Il primo Sertini laureato, le
sue sorelle sarebbero morte d'invidia e in paese mi avrebbero
chiamato dottore. Terminai di scrivere il romanzo della mia vita al
secondo anno di università, lo feci leggere a un professore prossimo
alla pensione che mi guardò con aria sconsolata e mi batté una mano
sulla spalla. Tre piccoli colpetti che io interpretai come un
incoraggiamento. Il libro era talmente bello da lasciarlo senza
parole. Due amiche di corso mi confermarono che si trattava di un
capolavoro.
Il primo rifiuto arrivò all'ultimo
anno di università. Nel frattempo conobbi Matilde, due anni più
giovane, rimase incinta al terzo mese di frequentazione. Mi laureai
che lei aveva il pancione e le acque si ruppero due settimane dopo.
Nessun centodieci e lode sognato da mio padre, nessun bacio in fronte
desiderato da mia madre. Un novantotto, una tesi su Miller, nessuna
domanda da parte dei docenti ma era pur sempre una laurea. Nel
frattempo il mio romanzo continuava a viaggiare grazie alle poste,
una copia alla Mondadori, una copia alla Rizzoli, una copia a Enaudi.
Ben presto le copie in visione si moltiplicarono, divennero dieci,
poi venti, poi cinquanta. Riuscii a pubblicare un libercolo di poesie
che ottenne un trafiletto su un giornale locale. Trenta copie vendute
fra amici e parenti, una presentazione alla quale non si presentò
nessuno con Matilde che si lamentava del gonfiore alle caviglie, lei
che si era laureata in economia e commercio e lavorava per una grande
azienda, tornava a casa e mi trovava immerso nella lettura di qualche
saggio “geniale” o di un qualche libro “rivoluzionario”
mentre Luigi spargeva giochi per la stanza. Qualche supplenza a
scuola, sedici concorsi fatti senza vincerne neppure uno,
trecentosettantaseiesimo nella graduatoria. Era chiaro che non avrei
mai insegnato. Ma c'era sempre il mio libro, dopotutto, quello che
nel frattempo aveva collezionato trentatré no. Tutte lettere molto
cortesi: “Siamo spiacenti di comunicarle... bla, bla, bla... non
conforme alla linea editoriale... bla, bla, bla....”. Ogni tanto i
giornali parlavano di qualche giovane autore che aveva sfondato alla
prima, un Enrico Brizzi qualunque che aveva scritto di insulse storie
d'amore giovanili, leggevo con disgusto dei primi posti in classifica
di questi personaggi, nessuno era all'altezza del mio scritto,
nessuno aveva il mio talento. Al trentaquattresimo rifiuto mi
convinsi che era in atto un complotto contro di me. Ero troppo bravo,
gli altri autori, la Lobby degli scrittori senza talento, impediva
alle case editrici di pubblicarmi. Nel frattempo qualche supplenza a
ragazzini svogliati, annoiati e senza speranza. Si sarebbero sposati,
avrebbero messo al mondo dei figli, avrebbero fatto lavori inutili e
mal pagati. Al trentasettesimo rifiuto mi trovai un lavoro in una
ditta di dolciumi. Confezionavo caramelle, io, il primo Sertini
laureato della storia, e mentre ero lì che insaccavo palline
colorate che avrebbero cariato i denti a molti bambini capii che
avevo sbagliato tutto. Scrissi così un nuovo romanzo, altri due
anni, convinto che questo avrebbe spopolato e mentre scrivevo sognavo
ad occhi aperti di incontri straordinari con i pilastri della
cultura, inviti in tv, recensioni sui maggiori quotidiani. Una volta
terminato lo feci leggere a mia moglie che si era rasserenata visto
che ora c'era uno stipendio fisso in più e assecondava le mie
fantasie con rassegnazione. Aveva corretto alcune parti e poi mi
aveva detto “bravo” e io ero ripartito all'attacco. Prima una,
poi due, poi tre, poi quindici, poi trentasei, poi settantadue case
editrici. Al primo rifiuto mi chiusi in bagno e piansi violentemente. Al sedicesimo rifiuto mio padre morì, ischemia cerebrale.
Decisi che avrei dedicato a lui il mio primo romanzo. Nel frattempo
un altro giovane scrittore ebbe la meglio sulle mie aspirazioni.
Odiavo profondamente questi inutili parassiti che scrivevano di
niente. Leggevo i loro romanzi avidamente per poi commentare pieno
d'ira che si trattava di sterco antiletterario, lo dicevo a mia
madre, lo dicevo a mia moglie, lo dicevo agli amici e ai colleghi. A
qualcuno di loro il libro dell'inetto era persino piaciuto. “Povera
letteratura” commentavo fra me, desolato, scuotendo il capo.
Continuavo a dire a me stesso che la
mia era letteratura impegnata che non tutti avrebbero capito.
Infatti non la capì nessuno.
Ma fu alla soglia dei quaranta che
accadde un evento straordinario, la cosa che avrebbe per sempre
cambiato la mia vita.
Luigi, mio figlio, sedici anni appena
compiuti, pubblicò il suo primo romanzo. E, no, non lo pubblicò con
una piccola casa editrice. Lo fece con una delle più grandi case
editrici d'Italia. Un romanzetto che avevo bollato come inutile, un
fantasy pieno di personaggi improbabili che si accoppiavano con
creature fantastiche e tagliavano teste. Copiature di libri copiati
da altri libri che, a loro volta, erano brutte copie di originali
scadenti.
Quando entrò nel mio studio, mentre io
ero intento a scrivere un nuovo romanzo impegnato, era così felice
che rimasi impietrito. Stava provando quella gioia, quel brivido
intenso che io avevo aspettato tutta la vita. Gli misi una mano sulla
spalla e cercai di distendere i muscoli del volto: “Bravissimo!”
dissi con troppa enfasi, ascoltando la mia voce stridula.
Il libro di Luigi uscì dodici mesi
dopo e si piazzò immediatamente ai primi posti della classifica dei
libri più venduti. A casa telefonavano giornalisti e fan, arrivavano
mail di ogni genere, il suo profilo Facebook era pieno di richieste
d'amicizia. Io guardavo il mio, cinquanta amici e zero richieste,
tutti che mi facevano i complimenti per il successo di Luigi.
Quel piccolo bastardo, quella piccola
serpe che avevo allevato e nutrito, quel ladro di sogni e aspirazioni
che mi aveva rubato il posto nell'olimpo della letteratura grazie a
un libro orribile e pieno di errori. Quando mia moglie mi costringeva
ad accompagnarlo alle presentazioni mi mettevo infondo alla sala
oppure giravo per librerie piene di sterco cartaceo, la mia rabbia,
la mia frustrazione era così forte che quando mi chiedevano se quel
giovincello di successo fosse mio figlio rispondevo di no, che ero
solo uno che lo accompagnava in giro, che suo padre era molto malato
e che quel ragazzino viziato, invece di scrivere libri del cazzo,
avrebbe dovuto occuparsi di più di suo padre. Proprio così dicevo:
libri del cazzo, e chi mi aveva rivolto la parola se la dava a gambe
e mi lasciava nella mia triste solitudine.
Il secondo libro di Luigi andò meno
bene del primo ma fu comunque un successo. Raccontavo menzogne a me
stesso, dicendomi che, dopotutto, il suo libro non era andato poi
così bene. Fingevo di non vedere i premi, le interviste. Arrivarono
poi anche i passaggi televisivi. Sua madre era entusiasta, così
orgogliosa di quel piccolo ladro bastardo, di quell'inconsapevole
patricida. E non era bastata la dedica del suo terzo libro (“a mio
padre”) a mettere a posto le cose. Che figlio aspetta il terzo
libro per dedicarlo al proprio padre?
Quando se ne andò di casa fu quasi un
sollievo, lo aiutai con il trasloco, portai a casa sua tutti i premi,
le foto, i ritagli di giornali. Quando ebbi nuovamente la casa libera
mi chiusi nel mio studio e strappai le pagine di ogni suo libro. Alla
fine mi facevano male le braccia, poi le raccolsi in mezzo alla
stanza e ci pisciai sopra. “Vai all'inferno piccolo ladro
bastardo!” dissi mentre lo facevo dicendo a me stesso che ora mi
sentivo meglio.
Evitavo quotidiani, televisioni,
internet. Non andavo più in libreria. Ero diventato stranamente
taciturno al lavoro, avevo smesso di parlare dei miei libri anche se
tutti continuavano a parlarmi dei libri di mio figlio. Spesso dormivo
sul divano, mentivo a mia moglie dicendole che mi faceva male la
schiena. Colpa del letto. Sul divano stavo molto meglio. La verità
era che non volevo condividere lo stesso letto con la persona che
aveva tenuto in grembo e poi allattato quel piccolo mostro che aveva
distrutto i miei sogni.
Al cinquantesimo rifiuto del mio nuovo
romanzo raccolsi tutta la mia roba da scrittore, il vocabolario, il
computer portatile, la stampante, i precedenti capolavori rimasti
inediti, il ritaglio di giornale che parlava del mio unico libercolo
edito da una casa editrice fallita ormai da sette anni e li gettai
nel cassonetto davanti a casa. In piena notte attento a non farmi
vedere.
Il giorno dopo andai a comprare un
computer nuovo di zecca, lo portai nel mio studio, andai al lavoro,
bevvi del caffè e mangiai un panino. Tornai a casa, feci finta di
interessarmi alla giornata lavorativa di mia moglie, evitai di
rispondere alla chiamata di Luigi e quando lui chiamò sua madre mi
chiusi in bagno urlandole dalla porta che lo salutavo tanto e che lo
avrei chiamato più tardi. Poi, quando Matilde si fu addormentata,
gettai tutti i miei libri di letteratura, accesi il computer e
guardai della pornografia.