Apro la settimana con una breve
considerazione, ormai ci siete abituate/i, se lo faccio non è per
sparlare delle aziende o delle librerie di catena, sarei uno sciocco
a farlo. Lo faccio perché credo che esprimere dissenso, sul blog e
in libreria, sia comunque un modo per portare a una riflessione.
Intanto, nello sconforto generale della situazione economica, vorrei
segnalare, purtroppo, che anche la storica libreria Hoepli ha scelto
la cassa integrazione per i propri e le proprie librai/e (l'articolo
qui). È una notizia che non mi ha colto di sorpresa ma che mi ha
profondamente rattristato anche perché ho avuto la fortuna di
conoscere Ulrico Hoepli alla scuola per librai Mauri, è una persona
di intelligenza e ironia rara, nei confronti del quale provo grande
stima.
I segnali che arrivano da più parti
sono sconfortanti ma credo ci sia ancora un margine d'azione. Per
cambiare le cose però occorrerebbero menti illuminate (o almeno
ragionevoli) pronte a mettere in discussione il sistema libro degli
ultimi decenni, pronte ad abbandonare schemi e rigidità, ci
vorrebbero coraggio, investimenti, ma forse, alla fine, basterebbe
anche essere pronti a una rivoluzione culturale.
Che, detta così, sembra facile.
La cosa che non sopporto nel nostro
lavoro è l'arroganza. L'arroganza di non voler vedere i problemi, di
andare sempre dritti per la propria strada anche quando la strada è
decisamente sbagliata, di trovare sempre capri espiatori, di
continuare a tagliare senza guardare a cosa si sta tagliando e agli
effetti che tali tagli producono. Il disamore per il proprio lavoro
è, a volte, una conseguenza di un insieme dei fattori sopra
elencati.
Lo sconforto (il mio non quello
dell'economia) viene proprio dalla consapevolezza non solo che ai
vertici non vogliono fare inversione di rotta ma anche dal fatto che
ormai, per paura di veder mettere in discussione le proprie cariche,
nessuno si oppone più a nulla.
Il pensiero preminente è: c'è la
crisi, faccio quel che mi dicono e sto zitto così non rischio.
Non si sollevano i problemi e le cose
vanno sempre peggio.
Ecco, siamo arrivati al punto, perché
io, da libraio, ho un problema (ne ho parecchi a dire il vero ma ne
affrontiamo uno alla volta) e quel problema è dato dalla cattiva
abitudine che ormai tutte le librerie di catena hanno, di mettere a
disposizione, per soldi, le proprie vetrine.
Ne ho già parlato, il fenomeno però
sta prendendo piede e , temo (sempre che non lo si faccia già), ben
presto anche gli spazi migliori, quelli in prima “battuta” (gli
spazi cioè vicino alle casse o più visibili appena entrati in
libreria), verranno “privatizzati”.
I libri in vetrina, soprattutto se le
vetrine sono in zone di passaggio, hanno maggiori opportunità di
farsi conoscere e vendere.
So che la libreria è, prima di tutto,
un esercizio commerciale, ma continuo a trovare sbagliato, oserei
dire quasi immorale, vendere le vetrine. Per una serie di motivi.
Il primo è che si toglie autonomia al
libraio. Un tempo il libro finiva in vetrina se il libraio lo
considerava meritevole, oggi hai una tabella da rispettare. Non
importa che il libro sia un buon libro o un pessimo libro, la casa
editrice ha pagato quindi va messo. Ovviamente un altro motivo
riguarda la “meritocrazia”. Non tutte le case editrici possono
permettersi di comprare le vetrine anzi direi che solo le grandi o
quelle con soldi da investire lo possono fare. Questo va a discapito
della bibliodiversità. Se devo dedicare un'intera vetrina ai vari
“regali da...” o ai “misteri di...” con tanto di cartonato o
gigantografie delle copertine non avrò l'opportunità di promuovere
libri di case editrici minori. Già, aggiungerei, penalizzate dal
fatto che in libreria viene sempre dato più spazio alle sigle
editoriali potenti (parlo di spazi sia orizzontali che verticali) e
sempre meno alle altre.
Probabilmente tutta la pubblicità è
ingannevole ma se io passo davanti a una libreria e vedo un titolo in
vetrina, da lettore ingenuo penso: “Se l'hanno messo in vetrina un
motivo ci sarà...” magari penso che il buon libraio ha amato quel
libro e ha deciso di promuoverlo. Quindi, nelle vetrine a pagamento,
dovrebbe esserci una scritta che dice più o meno: “Questo spazio
espositivo è stato acquistato dalla casa editrice per esporre il
proprio prodotto”.
Alla fine, temo, si torna sempre al
punto di partenza: forse ha smesso di credere nella cultura anche chi
la cultura dovrebbe produrla. L'idea è che si devono fare soldi e
visto che vendere i libri non basta più si trovano altri modi. Si
taglia il personale, si riducono le spese (soprattutto quelle NON
superflue), si incrementa il materiale “no book” (che va dalla
cartoleria ai porta cellulari) che ha maggior margine rispetto ai
libri e si (s)vendono le vetrine e gli spazi. Sembra insomma che a
chi gestisce librerie poco importi del “bene” libro. Del resto
non è neppure la prima volta che a capo di librerie viene messa
gente che non ha un “trascorso” librario.
Allora, Signore e signori, come si esce
da questo pantano?
Io credo con la consapevolezza.
Siate consapevoli, quando passate
davanti alla vetrina di una libreria di catena e vedete quell'unico
titolo in 50 copie con tanto di bel cartonato e foto dell'autrice o
dell'autore, con quelle belle copertine ammiccanti piene di
particolari del volto o uomini incappucciati, colorate e sgargianti,
con fascette che urlano al capolavoro... fatevi qualche domanda.
E magari non cadete nella trappola.