lunedì 25 febbraio 2013

Luca. Libraio FNAC. Parte prima

Continuiamo a parlare di FNAC e di quello che sta accadendo. Nei giorni scorsi, leggendo alcuni dei messaggi lasciati in coda al mio pezzo, ho notato che molte persone mettevano in evidenza solo l'aspetto “commerciale” o “espositivo” del negozio. Ognuno di noi ha una propria idea di quale sia la libreria ideale, neppure io amo i megastore, nonostante ci lavori. Però se domani mi dicessero che la libreria per cui lavoro chiude il mio mondo andrebbe in pezzi. Normale, direi. Così come è normale che vengano meno gli equilibri famigliari, sociali, relazionali di ogni persona che perde il lavoro. Perché significa passare da uno stato di “sicurezza” a uno di “imprevidibilità”. E se a vent'anni puoi anche permetterti di pensare che forse il tuo futuro è altrove o che puoi fare altro nella vita a quaranta vedi le cose in modo diverso. Nel momento in cui scrivo questo pezzo non so ancora nulla di Luca. So che lavora in FNAC e che è stato, per ora, l'unico a darmi la sua disponibilità ad apparire sul blog. Nei prossimi giorni parleremo con e di lui. Oggi però voglio farvi leggere un pezzo che ha scritto.
Perché dietro agli scaffali, in mezzo ai libri, non importa se di una libreria di catena o se di una libreria indipendente, ci sono persone.
Tutti i lavori hanno uguale importanza, tutte le persone dovrebbero avere uguale dignità. Però quando chiude una fabbrica è più facile che ci sia un effetto mediatico. Quando chiude una libreria, invece, magari c'è qualcuno che pensa che, dopotutto, non è un gran male. Che tanto ce ne sono altre. Che era solo un supermercato del libro. Che i “commessi” erano scortesi. Che i libri costano meno se li compro on line.
Bene. Però per ogni libreria che chiude, dietro ogni serranda che si abbassa, ci sono persone con nomi, volti e storie.
Questa è quella di Luca.


“E’ frustrante, ma non se lo meritano.
E’ umiliante, ma non se lo meritano.
E’ triste, ma non se lo meritano.
Non si meritano niente.

D’accordo, era un posto di lavoro, non era mia l’azienda però negli ultimi 5 anni ho speso qui dentro più tempo e ore in valore assoluto di qualsiasi altro posto, più di casa mia, più del letto di casa mia dove mi coricavo a dormire dopo aver finito il turno alle 10 di sera.

E ti fanno sentire come se fosse tua la colpa, come se fossi stato tu che hai fatto chiudere il negozio, come se fossi tu quello che non ha saputo dare la marcia in più quando c’è una crisi mondiale, creata da loro, sì, creata anche dai “padroni” – e voglio proprio usare questa parola dal sapore antico ma ancora attualissima – di Fnac. I grandi manager, quelli che hanno studiato economia all’Università, e poi magari frequentato un Master alla Business School di Londra e chissà che altro; loro, che non sanno nemmeno il patrimonio che hanno disperso, un “brand” diverso, innovativo fondato quasi 60 anni fa da 2 due militanti marxisti della corrente trozkista (!) con ben altre intenzioni e altro spirito.

Non parlo di questo, parlo del patrimonio fatto di ragazze e ragazzi, donne e uomini che in questa azienda hanno creduto, che hanno gioito quando sono stati assunti, che si ritenevano tra gli ultimi fortunati, “che hai un contratto a tempo indeterminato? Ma davvero…”. E gli amici ti invidiavano perché potevi pensare a programmare un futuro, non dico a sposarti e comprare casa e metter su famiglia (tanto il mutuo non te lo danno nemmeno se hai il contratto a tempo indeterminato) ma magari potevi sentirti un po’ più tranquillo, pensare che tra qualche anno, passata la crisi, avresti avuto una buona base per ripartire.

E invece, niente. Non si meritano niente.
Luca Cardin”

3 commenti:

  1. Sono con voi in tutto e per tutto.
    Tranne qundo scrivi che quando chiude una fabbrica è più facile che ci sia un risvolto mediatico.
    Non è così.
    E anche a noi è crollato il mondo addosso.
    I lavori sono tutti uguali, tutti.
    Le fabbriche chiudono, moltissime.
    E ti assicuro che non c'è stato alcun risvolto mediatico, nè nessuno che ne ha parlato su un blog.

    Michela

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    1. Ciao Michela,
      il mio blog è a disposizione perché se passi qualche minuto qua vuol dire che il tuo mondo è fatto anche di libri e se perdi il lavoro tu ci perdo sicuramente qualcosa anche io. Sia da un punto di vista umano e culturale, sia da un punto di vista economico. Quindi se vuoi ne parliamo. Il mio indirizzo è aracno76@libero.it

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  2. il messaggio veicolato nelle aziende è sempre quello: per combattere la crisi occorre essere i migliori, c'è una gran pressione in tal senso, e se qualcosa va male cercano di farti intendere che tu (il lavoratore) non è stato all'altezza delle aspettative, non ha dato il massimo, non che le scelte ai vertici forse potevano essere diverse.
    sono con Luca e mi spiace davvero. Sandra

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