«Hai sentito che
Carolina s’è ammazzata?» Risposta: «Sì, ho sentito. Quasi quasi vado
all’obitorio a vedere per l’ultima volta quella faccia di m...».
Leggendo la storia di
Carolina (che si è suicidata nel 2013) attraverso le parole del padre provo una fitta al cuore. Una fitta per
una giovane vita stroncata da atti di bullismo, una fitta per un padre che non
chiede vendetta ma che vorrebbe che i bulli capissero cosa hanno fatto e
diventassero, a loro volta, simboli antibullismo. Una fitta per le orribili
parole scambiate negli sms dei ragazzi, neppure la morte della loro amica li ha
indotti a comprendere l’orrore che questa ragazza viveva a causa loro. Mi
chiedo a cosa sia dovuta tutta questa cattiveria, come sia possibile che dei
ragazzi così giovani non provino un minimo di empatia verso il mondo che li
circonda, verso una ragazza che, disperata, ha deciso di farla finita.
Non è facile parlare
di bullismo, non lo è perché spesso mancano i mezzi e la voglia per fare un
buon lavoro, non lo è perché ancora troppe persone si voltano dall’altra parte,
perché parlare del problema significa ammettere che il problema esiste. E non
lo è perché quando si parla di bullismo si parla, inevitabilmente, di
educazione e cultura. Si parla di violenza di genere, si parla di identità, di
sessualità, di affettività. Sono argomenti che non si possono evitare, che non
andrebbero evitati.
Mancano le risorse,
manca la cultura, manca l’attenzione. I progetti contro il bullismo, sulla
sessualità, sul rispetto, vengono lasciati in mano a singole/i volenterose/i,
spesso osteggiati da quei gruppi di persone che minimizzano il problema, che si
oppongono a una sana educazione sessuale, al rispetto e di genere, che non
vogliono che i figli capiscano che discriminare
è sbagliato, che scendono in piazza con libri che servono solo a
nascondere un pregiudizio profondo, che spaventano professori e presidi che, a loro volta, preferiscono non affrontare l’argomento per non doversi
confrontare o spiegare a genitori poco interessati.
Ma Carolina è morta.
È morta per la nostra
mancanza di coraggio, per la nostra mancanza di attenzione.
E Carolina ha mille
nomi perché dietro questa tragica vicenda ci sono i volti di chi il bullismo lo
ha subito davvero, di chi da questa violenza è rimasta/o schiacciata/o. Ma ci
sono anche i volti dei bulli, perché non stiamo parlando, nonostante le
orribili parole e la mancanza di pietas, non di pietà ma di quell’amore
doveroso che dovremmo all’altra/o, di mostri. Stiamo parlando di ragazze e di
ragazzi a cui abbiamo regalato un mondo sempre più spietato e violento, in cui
spesso la tecnologia ha preso il posto della realtà, in cui stare seduti
davanti a un dipinto a fissare lo schermo del cellulare, in cui le relazioni
virtuali hanno preso il posto di quelle reali.
E in tutto questo
rimane il nostro vuoto di adulti, rimane la società che abbiamo contribuito a
creare, rimane il nostro disinteresse nei confronti dell’altra/o.
Credo che a Carolina
noi dobbiamo di più di qualche minuto di sgomento e dolore. Le dobbiamo il
nostro impegno quotidiano contro una piaga sociale che ci riguarda.
Ci riguarda tutte/i.